Dal bordo del pendio, in mezzo
all’erba alta, sentì la voce caprina di Salvatore.
L’erba di quel maggio
piovoso gli copriva il corpo fino al petto. Indovinò le braccia troppo lunghe che spuntavano dal
velluto consumato, gli occhi bovini e il porro peloso, che ne facevano uno
strano mimetismo. Come ogni mattina si univa alle greggi che si richiamavano.
Le voci si riconoscevano e si rincorrevano, richiamandosi in contrappunti
e armonie, solo e lontano, il bianco belato dell’agnello perduto.
Il
vento, entrandogli nel torace, vi faceva giravolte e piroette
e usciva portando l’eco della terra che aveva sepolto, il
latrare dei silenzi di cui si era saziato, il rantolo della zolla spezzata.
E le
greggi gli rispondevano, da lontano, in un chiosare di voci, un
contradditorio sonoro di toni e semitoni
che si interrompeva appena la donna arrivava in vista.
Perché sarà
tornato, si chiedeva, ma in fondo lo
sapeva, solo perché non si notasse quell’ assenza tra le quattro pietre, solo
per l’effrazione del silenzio in mille rivoli di note.
Benché non fosse certa, qualche volta, arrivando
all’improvviso, le era sembrato che Salvatore, saltando oltre il muro,
nascondesse la coda caprina e lo zoccolo di corno; un attimo e ritornava
pietra, sparendo tra umidità dei muschi.
Ne restava l’incredulità del miraggio.
Con la mano sinistra sul ginocchio
sinistro e quella destra sotto il mento,
a occhi socchiusi, l’ uomo sorvegliava greggi di malva e ortica selvatica,
tenendo sospeso dentro la gola un bolo erbaceo ruminato, che gli riempiva di
nero il cavo della bocca.
Si addormentava così, Salvatore, con quell’
amaro dentro, sognando le sue stelle. “Tu scendi dalle stelle”, gli dicevano,
per quel corpo invadente che fuoriusciva dal velluto, per quell’ altezza eccessiva, che nessun abito
sembrava contenere. Da quelli stolti
che mai, mai seppero, che sulle stelle, lui si, ci saliva sul serio.
https://www.youtube.com/watch?v=xSSWrZ_4xb4
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