sabato 29 dicembre 2012

Porta i miei occhi alla fontana dei salici





La stanza era così perfettamente igienizzata da far sparire ogni eco di vita.
Dunque era questa l’anticamera del luogo cui sarebbe andata. Non una macchia, non una muffa, non un grano di polvere, non un tanfo o un respiro  cui annodare il filo .
Le dita in continuo  movimento a sgranare i chicchi di un invisibile rosario. I misteri si alternavano quasi ininterrottamente,  con brevi  interruzioni scandite con  precisione di orologio.
Ogni tanto, qualcuno si affacciava nella stanza, rumori e volti sconosciuti, in cui cercava, inutilmente, una traccia, un segno a cui ricucirsi.

 “Non è conveniente  ficcare i piedi nella vasca del passato, le conchiglie sono ormai cocci  e rischi di ferirti i piedi”. E lo sguardo si rarefaceva nella nostalgia dell’orizzonte.
I giorni correvano più veloci nella penombra della stanza. Un tempo la volta era azzurra, le nuvole si rincorrevano, si alternavano schiarite e giorni di pioggia, e la linea opalescente, oltre cui ogni cosa perdeva consistenza ed evaporava gradualmente, era molto lontana.
Sospettò  di averla raggiunta trovandosi la prima volta con le chiavi di casa in mano, e non sapendo che farne.
Quando svanisce la certezza del futuro, niente sembra più certo del passato. Vi si ancorò.
Ma il passato è sempre un imperfetto e le faceva sberleffi dietro le quinte della memoria.
Inizialmente, fece finta di non badarci troppo, ma i piccoli buchi neri, dove affondava la fragile consistenza delle cose, cominciavano a fiorire come buchi nella neve. Finchè cessò di opporvi resistenza.
E del resto, non avrebbe potuto,  l’inconsistenza le era sconosciuta.
Era abituata ad  altro, lei. Le ossa, cristallizzate nella terra indurita dal ghiaccio o dal sole, avevano resistito  alle due guerre, alla lontananza del marito richiamato, alle maternità masticate in solitudine, tra un raccolto abbondante e una carestia, a quei chilometri  di strada bianca percorsi tra neve e gelo, o  calore  e solitudine, solitudine, sempre, fino alle prime case nel paese.
E quelle, le due figlie a cui insegnare, ruvidamente, che essere donna significa, principalmente, attrezzarsi per gestire la sofferenza.
Eppure non era una donna dall’attesa incerta, lei. Il futuro era  un campo di grano seminato, di cui non doveva che raccogliere i frutti. Mese dopo mese, stagione dopo stagione, ogni cosa andava avanti battendo il semplice ritmo della terra.
Inizialmente fu intermittente. Un breve cedimento strutturale. Una crepa immediatamente stuccata. Come quando, nell’infanzia, l’inefficienza della rete elettrica faceva saltare la luce e si chiedeva, stupita, se quella alchimia, quella scia luminosa che solo la complicità di un dio poteva far viaggiare dentro un filo di metallo, fosse, giustamente, scomparsa per sempre, perché di inafferrabile durata sono i miracoli. Restava in un’attesa senza fiato, nella timorosa certezza, che la sua fede traballante non  meritava il riperpetuarsi di tanta generosità divina.

Arriva sempre  troppo presto il momento di ripiegare i sogni nei cassetti.
La generosità del tempo ancora sospeso si assottigliava.
La casa era solitaria già da molto, ormai. Una volta, ogni stanza aveva una vita, una funzione e un destino che scaturivano, ordinatamente, dai gesti, dagli oggetti, dagli sguardi sedimentati in anni.
Aspettava. Solo quando le luci cominciavano a sbiadire, chiudeva la finestra trascinandosi pesantemente sulle pantofole, pelo di gatto su feltro nero. Non sarebbe venuta nemmeno quella sera.
Un ultimo sguardo dalla finestra: il silenzio dell’acciottolato si inerpicava sulla salita. No, non sarebbe più venuta. Era la quinta sera di seguito ormai.
Cisca, la gattara, compariva improvvisamente sulla porta come spuntando dal terreno. Le raccontava di averla vista girare per il paese con la bambina, più spesso da sola. E la gente parlava. Parlava di quella donna che ingoiava terra e singhiozzi sui bordi delle strade, ignara degli sguardi. Ah, la gramigna, bisognava estirparla all’origine, la gramigna..
 "Che posso farci ormai, le forze mi hanno abbandonata, che posso farci, avrei dovuto raddrizzarla da piccola quella figlia snaturata!” Ma la voce tradiva.
Cisca le gettava uno sguardo traverso, allungava la mano verso il bicchierino di vermouth versato prontamente per chiuderle la bocca, ricompensa per quella visita quotidiana e per le informazioni non richieste.
"Anche nelle migliori famiglie crescono rami storti. Pare che a casa ci stia ben poco ormai, quel pover'uomo del marito, deve averne di pazienza per non cacciarla!"
Sputata la sentenza, la gattara usciva piegata dentro le vesti nere, trascinando l’alluce valgo per la discesa, diretta verso un’altra casa dove portare qualche scontata novità.
 Zara la osservava dalla finestra mentre spariva dietro l’angolo. Il silenzio che restava era ormai contaminato.
No, non sarebbe più venuta.
Nell’ insolenza della sua casa vuota, le immagini e le voci  si rincorrevano attorcigliandosi in matasse che non riusciva a dipanare. Fotogrammi comparivano e  sbiadivano prima che riuscisse a interrogarli.
Quando fu stanca di districare gli scherzi di quei fili irriverenti che non si lasciavano addomesticare e la confondevano, li abbandonò chiudendo tutte le porte. Li lasciò a inseguirsi ed arruffarsi, sperando di essersene liberata per sempre ….
Chiuse la porta e chiuse la bocca, Zara.
Non ci volle tanto. L’odore pungente della vecchiaia  si insinuò in fretta nelle vesti e nel candore della pelle senile. Cartacce e stracci si ammucchiarono inesorabili sotto i vecchi mobili di truciolato  del soggiorno buono e, nei piatti di ferro smalto, fu una primavera perenne di  muffe variegate .

Ora, nel biancore della stanza, lo spazio e il tempo si dilavano sciogliendo ogni confine.
Per paura di perdere quel poco che le  restava, Zara risucchiò ogni anelito del suo corpo. Ogni respiro, ogni cellula, ogni possibile articolazione di suono furono concentrati all’interno in un unico puntino nero. Anche il vuoto della casa, l’eco delle stanze silenziose, fu addensato in quell’unico punto, che la proteggeva contenendola interamente .
Lì se ne stava rannicchiata, arrivando presto a confondersi con le pareti scure.
Come un legno abbattuto, ancora conteneva il grido della pioggia, l’eco del formicolio degli insetti, l’impazienza  del muschio. Ma la smania della primavera era scomparsa,  sbiaditi e addomesticati  i furori di quel  tempo ancora giovane.
Anche il seguire un filo di poca consistenza bastava per condurla oltre  una porta .
Si schiudeva, allora, un’altra età della vita. Una bambina vestita di carta si svelava per un attimo, cadendo e accartocciandosi sulle ginocchia.
Annodava il filo all’odore infantile che ne restava, stringendolo con furia tra il pollice e l’indice .
Era sufficiente. Per un attimo, a volte più a lungo, se si era fortunati.
Accadeva, talvolta, che quel filo avesse la proprietà di impigliarsi in qualcosa di vagamente conosciuto. Allora camminava sul crinale della collina, frustata dal vento, con il volto arrossato dal freddo e dalla fatica, abbracciando la fascina di legni anneriti. La bambina camminava dietro, mani graffiate e nere dai rovi bruciacchiati. Ma sorrideva, la bambina, portando con sé quel ciuffo di lana che  il filo spinato aveva rubato ad una pecora imprudente. 
E quanto camminava Zara , nel suo letto.

Passi veloci nel corridoio. Il tonfo di una porta. Una  presenza  riempì timidamente lo spazio vicino al letto.
Zara si impigliò in un noto odore infantile. Aprì appena gli occhi. 
La donna  arrivò trafelata. Ancora l’ odore di cibo fritto nei capelli, un tacco sberciato, lo strascichio di voci infantili  che  la rincorrevano.
Si avvicinò e si sedette, la donna, occhio distratto, per poco, dalla luce impietosa della finestra aperta. Il respiro ancora affannato, sincronizzato a fatica su quello appena percettibile dell’altra. Lo sguardo pudico di chi ha paura di guardare l’ignoto ma il dovere di farlo.

La deriva portava l’orizzonte ancora più lontano. Con il ritmo grigio della corrente, uniforme e inesorabile, gli ultimi  ricami si sfacevano in centinaia di fili consumati.
Ma l’orizzonte non era più il punto d’arrivo. Ogni immagine si disfaceva e si scioglieva, perdendosi in mille rivoli. Le dita ancora più strette sul filo.

Era accaduto poco prima.
Mamma. Mai sono stata madre. Appena fino ad oggi. Sorrise. Appena da oggi .
Porta i miei occhi alla fontana dei salici, quando sarà il momento.
Oh figlia , figlia, non mi lasciare ora, non lasciare che attraversi da sola la porta di sabbia
Non mi hai dato gambe per camminare, come posso essere, ora,  madre di mia madre ?
Non  dimenticare di prendere un po’ di lacrime con te – figlia- possono tornare utili .
Le mie lacrime avevano colori di cera e ali mozzate di gallina, le ho lasciate sotto il cuscino, e a cercarle,ora, solo l’alone della loro scomparsa.
Figlia, non andartene adesso, non privarmi del tuo passo traballante, non mi lasciare dimenticata, non lasciare che io, di me dimentichi , ancora curva sulla china della collina.
Madre, non mi lasciare, non voglio diventare grande, sono ancora piccola, non mi vedi ? Sono ancora la bambina che correva dentro il tuo letto, non lasciarmi a dormire sul tappeto ai tuoi piedi, fammi entrare, mamma. Portami ancora  sotto il ciliegio, madre, riempimi la bocca di  frutti rossi, quelli che mi hai dato sono ormai marci sotto i denti da latte.

“ Tu… stai pensando qualcosa “ – La voce, finalmente -  sussurrò Zara abbandonando le mani tra le pieghe del lenzuolo.
 Nella vaghezza liquida dello sguardo, la donna intercettò un lampo breve, il presagio indistinto delle cose  inafferrabili. Approfittare  di quella brevità .
“ Anche tu stai pensando qualcosa, mamma “ Rispose con urgenza.
Ronzio di api fuori dalla finestra .
“Si.  Sto pensando di cambiare vita. “ Tornando a inseguire i suoi crocicchi, i filari di vite, l’orizzonte che si perdeva nell’indefinitezza dell’azzurro.
Accadde poco dopo.
Alcune civiltà usano il termine soffio per indicare la vita. C’è un momento in cui ogni soffio, liberandosi della costrizione della materia, si ricongiunge al più vasto respiro dell’aria. Noi la chiamiamo morte.
L’eredità di Zara, fu delle api .


4 commenti:

  1. Davvero brava. Bellissimo racconto. Scritto molto bene.
    Sai leggere nei cuori.
    Più tardi lo rileggerò.
    Ciao

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  2. Passavo, non a caso. Non a caso ti ho ritrovata. Bellezza mia!

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