lunedì 11 novembre 2013

A sas animas


E’ la sera che mia madre preparava una cena  più abbondante. La solita cena frugale, ma cucinata con più attenzione, come in attesa dell’ospite più degno.  Il piatto era sempre unico, gnocchetti fatti a mano, se li aveva, ma il sugo era con carne e dei migliori che le riuscisse,  preparato con maggiore  cura, come per un rito antico. 
Mangiavamo in un’atmosfera misteriosa,  indotta dalla solennità dei  gesti e dall’ umore malinconico di mia madre, chè stavolta, dell’autorità  di mio padre,  restava solo il silenzio appartato. 
Ma  la vivacità infantile traboccava, si rideva e ci si dimenticava  della particolarità di quella serata, spariva anche l’alone di paura che ogni anno, in quel giorno,  avvolgeva quel passaggio misterioso.  
Dopo cena, era sempre mia madre a impartire la richiesta“ Stasera lasciate apparecchiato per i morti” 
E la gravità di quella notte speciale rimbalzava improvvisa  impregnando l’aria.
 In quell’attimo pensavo da quale spiraglio sarebbero entrati ,quei morti, temevo che mi avrebbero portato via dal mio mondo, pensavo che, forse, il cibo serviva a rabbonirli, far dimenticare loro l’ingiustizia dello scarto tra la vita e la morte. Speravo che la pasta di mia madre fosse abbastanza gradita per distoglierli dal far del male a chi aveva l’impudenza di sopravvivere. 
Ma mia madre, che non era incline al sorriso, intercettava i miei occhi e rideva accarezzandomi il capo. “ I morti ci vogliono bene, diceva, non ti faranno alcun male”  
 Così la tavola restava apparecchiata: il piatto di portata ben coperto, la frutta secca, l’uva  prelevata in cantina con  il filo di rafia ancora attorcigliato ai cirri, la bottiglia di vino buono, i biscotti di noci e mandorle, preparati nei giorni precedenti.  
A letto ispezionavo ogni angolo della stanza pensando che, se i morti mi amavano, sicuramente la nonna Giovanna Angela  sarebbe venuta a vedere come fossi cresciuta;  e il nonno Mimmia avrebbe lasciato la  muta di cani, che tratteneva  immobile nella foto, per farmi un buffetto sulla guancia; e lo zio Salvatore sarebbe tornato indietro nel tempo, prima che le ruote del camion lo schiacciassero. Mi addormentavo convinta che quella notte, solo quella notte, le anime potevano tornare per salutare i loro cari.
 Per anni provai a spiarli, quei morti, poi mi persuasi che, di certo, di quel lieve passaggio non potevo accorgermi.  
La mattina, mio padre, uscendo all’alba per la campagna, mangiava la pasta dei morti.
Così, quando mi svegliavo  e correvo a controllare la tavola in cerca di un segno nella quantità della pasta, in un acino d’uva appena staccato dal racimolo, nel livello del vino nella bottiglia, lo trovavo quel segno.  
Ci son voluti molti anni perché capissi che quell’offerta, quella comunione di cibo, erano molto più del ricordo degli avi, dell’appartenenza a una civiltà, dell’eco  di generazioni remote.  Era davvero una porta aperta tra due mondi, che di quel cibo entrambi ci nutrivamo, noi della Morte, i morti  della Vita.

mercoledì 10 luglio 2013

Birimboi

Dal bordo del pendio, in mezzo all’erba alta, sentì la voce caprina di Salvatore. 
L’erba di quel maggio piovoso gli copriva il corpo fino al petto. Indovinò le  braccia troppo lunghe che spuntavano dal velluto consumato, gli occhi bovini e il porro peloso, che ne facevano uno strano mimetismo. Come ogni mattina si univa alle greggi che si richiamavano. Le voci si riconoscevano  e  si rincorrevano, richiamandosi in contrappunti e  armonie, solo e lontano, il  bianco belato dell’agnello perduto.
 Il vento, entrandogli  nel torace, vi faceva giravolte e piroette e  usciva portando l’eco della terra che aveva sepolto,  il latrare dei silenzi di cui si era saziato, il rantolo della zolla spezzata. 
E le greggi gli rispondevano, da lontano, in un chiosare di voci,  un contradditorio sonoro di toni e semitoni  che si interrompeva appena la donna arrivava in vista. 
Perché sarà tornato, si chiedeva, ma in fondo  lo sapeva, solo perché non si notasse quell’ assenza tra le quattro pietre, solo per l’effrazione del silenzio in mille rivoli di note.
Benché non  fosse certa, qualche volta, arrivando all’improvviso, le era sembrato che Salvatore, saltando oltre il muro, nascondesse la coda caprina e lo zoccolo di corno; un attimo e ritornava pietra,  sparendo tra umidità dei muschi. Ne restava l’incredulità del miraggio. 
Con la mano sinistra sul ginocchio sinistro  e quella destra sotto il mento, a occhi socchiusi, l’ uomo sorvegliava greggi di malva e ortica selvatica, tenendo sospeso dentro la gola un bolo erbaceo ruminato, che gli riempiva di nero  il cavo della bocca.

 Si addormentava così, Salvatore, con quell’ amaro dentro, sognando le sue stelle. “Tu scendi dalle stelle”, gli dicevano, per quel corpo invadente che fuoriusciva dal velluto, per  quell’ altezza eccessiva, che nessun abito sembrava contenere.  Da  quelli stolti che mai, mai seppero, che sulle stelle, lui si, ci saliva sul serio.

https://www.youtube.com/watch?v=xSSWrZ_4xb4

sabato 18 maggio 2013




L'addio

Non lo sapevo
ancora,eppure,
avevo sentito lo strappo,
 nell'istante del separarci,
in quella piazza di Maggio.
Era il suono silenzioso
della foglia, quando si stacca
dal ramo.

lunedì 26 novembre 2012

Amanti per una notte



L' agonia della mattina .
 Il momento della solitudine ancor più estrema, se possibile, della notte. 
Di una lontananza  che non perdona, perchè il risveglio ne segna la conclamazione.
Allora occorre  l' alzarsi. 
Sbrigare di fretta le faccende di un'igiene frettolosa. 
E separarsi .
 Prima che i contorni implacabili del quotidiano, delineino più nettamente 
la distanza .




lunedì 24 settembre 2012

Non ditelo alle rose

           




 Fu in quel momento che si ricordò . Si stava con le amiche , nella complicità   adolescenziale che sollecita la trasgressione . Si trattava di andare, solo a vedere ,le  si diceva,poi   sarebbero state libere di scegliere. 
Gli uomini, perché di incontri con uomini si trattava, avrebbero atteso e accettato le loro decisioni.

La stanza era grande e bianca, senza finestre ; dalla porta aperta, il sole di un pomeriggio astratto e lontano. Solo alcune sedie sul candore dei muri e un gigantesco tavolo di marmo  che troneggiava al centro.
Le giovani donne si sedettero intorno . Gli sguardi complici non si incontravano più ora, tendevano, piuttosto, ad evitarsi, ognuna giocava da sola la propria partita. E bisognava vincerla. Capì,  allora , di essere sola, che  non c’era scelta possibile e  solo il  non essere scelte,  era la salvezza.

 Quel corpo ,morbido e liscio,le diventò improvvisamente ingombrante, avrebbe voluto piaghe purulente e maleodoranti , nascondersi dentro  un corpo  usato, consumato e già dimenticato. Tuttavia , ancora dubitava che fosse solo un gioco, la simulazione di una particolare roulette , solo per qualche brivido freddo.

 Intorno, gli uomini guardavano silenziosi, qualche  piccolo cenno degli occhi e del capo lasciava intuire il consenso di un piano già predisposto e condiviso, senza varianti possibili. Non uno sguardo , tra le giovani donne.  Solo quando l’uomo uscì lei si accorse dell’altra porta, che pure era sempre rimasta aperta. Era l’accesso  alla stanza.
L’uomo era  piccolo , neppure tarchiato, uomo qualunque,  le vesti  dimesse del lavoro quotidiano, solo più ripulite. Sa ciccìa, il copricapo giornaliero, lasciava in ombra la parte alta del volto, neanche l’altra si vedeva, misteriosamente troppo illuminata , da chissà quale  luce.
Un solo sguardo, lento e sicuro: nella sua direzione, era lei  la destinata .
La risposta delle amiche fu un sospiro di liberazione  , impercettibile  , se non per un lieve movimento del torace.   
Gli uomini si avvicinarono , ma piano , senza fretta alcuna.
E ci provò ad urlare, divincolarsi dalle mani , dire no, che  non voleva, lei non aveva scelto …mai, mai nessuna scelta! L’urlo le squarciò il torace, ma senza voce, un tonfo vuoto di suono che le  rimbalzava dentro come un tamburo impazzito.
Ma come, come poteva contrastare quel potere, con quelle mani disarmate.

Fu dentro. Neppure il tempo di vedere altro  oltre i muri impiastrati di feci , sperma e  schizzi  di sangue  ancora accesi che   stridevano con l’asettico biancore delle piastrelle . Una goccia rossa  ancora tiepida , prigioniera di una fenditura bianca, disegnava una sottile scia  , lì si fermarono i suoi occhi.
Poi l’ alto tavolo di marmo , gli affilati coltelli da macelleria, il suo corpo di candido  agnello.
Fu squarciata, smembrata, esplorata in ogni orifizio.
Sulla  terra vergine e fertile,  le lame tracciarono profondi solchi.
Gli ultimi chicchi rossi rotolarono sotto il tavolo, alcuni , schiacciati sotto gli scarponi, rimasero spiaccicati sul pavimento , lasciando  macchie rosate e trasparenti .

Quando tutto fu finito, una pelle dell’agnello inerme fu buttata  fuori dalla porta.
Percorse barcollando la stanza ora vuota, con le spalle alle pareti. Le  sue mani attraversarono il  corpo, esplorarono   i seni candidi, il ventre , il morbido solco delle natiche  , infilò le dita dentro gli squarci profondi , stupita che non si macchiassero di sangue. Le ferite ,ancora aperte, erano esangui.

Quello fu l’ultimo ricordo di suo padre.







sabato 31 marzo 2012

La ragazza-sposa

C'era una volta una ragazza-sposa che si ammalò il giorno del suo matrimonio. Mentre da lontano arrivavano le carovane che dovevano portarla dal suo amato, le venne la febbre alta e cominciò a tremare. Insieme a lei tremavano tutte le stringhe che adornavano il suo vestito.
I parenti della sposa escono per parlare agli ospiti che sistemano i cavalli.
-La vostra sposa è malata-dicono sotto il suono dei tamburi, - non potete tornare un altro giorno ?
-Come ?-urlano loro -Noi non ci muoviamo senza la nostra sposa .
Forse pensano a un trucco della ragazza-sposa, si sa che per le ragazze è difficile lasciare i genitori.
-Verrà con noi anche se stesse per morire- dice l'uomo che guida la carovana dal suo cavallo rosso.
La ragazza sposa esce dalla porta di casa piangendo.
-Come se l'anno non avesse altri giorni- urla disperata una vecchia della famiglia.
La ragazza-sposa sale sul cavallo bianco e la carovana si mette in viaggio. Attraversano colline e prati, montagne e fiumi. Cantano canzoni allegre. La ragazza-sposa trema sul suo cavallo: ha freddo e la febbre la sta consumando. Il cavallo bianco sente le lacrime calde sulla criniera e sente la leggerezza di quel corpo che la vita sta abbandonando.
La ragazza sposa muore a metà del viaggio.
- Si fermi la carovana- dice ad un certo punto l'uomo sopra il cavallo rosso. la ragazza-sposa sembra pietrificata. Non sapranno mai per quanto tempo hanno viaggiato con una sposa morta.
-Che il canto si trasformi in pianto, - l'uomo che guida la carovana con uno scatto scende da cavallo. L'animale non fa capricci, anzi si piega leggermente come per aiutare il suo cavaliere a smontare. Da queste parti si dice che i cavalli rossi possono imbizzarrirsi, si dice che possono permettersi tante cose che altri cavalli neanche si sognano. Perchè sono rossi. Ma sembra che il cavallo , vista la situazione, si sia dimenticato del colore del suo crine.
La voce dell'uomo trema, pensa alle sue figlie. Fosse stato per lui ,avrebbe rimandato il matrimonio, ma non era possibile. E poi, l'appuntamento con il destino non si può spostare.
-Come se l'anno non avesse altri giorni ,- inizia così il pianto di una donna della carovana. Le stesse parole che la vecchia parente della ragazza -sposa aveva detto accompagnandola al cavallo.

Da " Lamore e gli stracci del tempo " di Anilda Ibrahimi
Il testo è riportato in corsivo, non so se sia un'antica ballata albanese o una creazione dell'autrice.