La stanza era così perfettamente
igienizzata da far sparire ogni eco di vita.
Dunque era questa l’anticamera del luogo cui sarebbe andata. Non una macchia, non una
muffa, non un grano di polvere, non un tanfo o un respiro cui annodare il filo .
Le dita in continuo movimento a sgranare i chicchi di un
invisibile rosario. I misteri si alternavano quasi ininterrottamente, con brevi
interruzioni scandite con precisione
di orologio.
Ogni tanto, qualcuno si affacciava nella stanza, rumori e volti sconosciuti, in cui cercava, inutilmente, una traccia, un segno a cui ricucirsi.
Ogni tanto, qualcuno si affacciava nella stanza, rumori e volti sconosciuti, in cui cercava, inutilmente, una traccia, un segno a cui ricucirsi.
“Non è conveniente ficcare i piedi nella vasca del passato, le
conchiglie sono ormai cocci e rischi di
ferirti i piedi”. E lo sguardo si rarefaceva nella nostalgia dell’orizzonte.
I giorni correvano più veloci
nella penombra della stanza. Un tempo la volta era azzurra, le nuvole si
rincorrevano, si alternavano schiarite e giorni di pioggia, e la linea
opalescente, oltre cui ogni cosa perdeva consistenza ed evaporava gradualmente,
era molto lontana.
Sospettò di averla raggiunta trovandosi la prima volta
con le chiavi di casa in mano, e non sapendo che farne.
Quando svanisce la certezza del
futuro, niente sembra più certo del passato. Vi si ancorò.
Ma il passato è sempre un
imperfetto e le faceva sberleffi dietro le quinte della memoria.
Inizialmente, fece finta di non
badarci troppo, ma i piccoli buchi neri, dove affondava la fragile consistenza
delle cose, cominciavano a fiorire come buchi nella neve. Finchè cessò di opporvi
resistenza.
E del resto, non avrebbe
potuto, l’inconsistenza le era
sconosciuta.
Era abituata ad altro, lei. Le ossa, cristallizzate nella
terra indurita dal ghiaccio o dal sole, avevano resistito alle due guerre, alla lontananza del marito richiamato, alle
maternità masticate in solitudine, tra un raccolto abbondante e una carestia,
a quei chilometri di strada bianca
percorsi tra neve e gelo, o calore e solitudine, solitudine, sempre, fino alle
prime case nel paese.
E quelle, le due figlie a cui
insegnare, ruvidamente, che essere donna significa, principalmente, attrezzarsi
per gestire la sofferenza.
Eppure non era una donna dall’attesa incerta, lei. Il futuro
era un campo di grano seminato, di cui
non doveva che raccogliere i frutti. Mese dopo mese, stagione dopo stagione,
ogni cosa andava avanti battendo il semplice ritmo della terra.
Inizialmente fu intermittente. Un
breve cedimento strutturale. Una crepa immediatamente stuccata. Come quando,
nell’infanzia, l’inefficienza della rete elettrica faceva saltare la luce e si
chiedeva, stupita, se quella alchimia, quella scia luminosa che solo la
complicità di un dio poteva far viaggiare dentro un filo di metallo, fosse,
giustamente, scomparsa per sempre, perché di inafferrabile durata sono i
miracoli. Restava in un’attesa senza fiato, nella timorosa certezza, che la sua
fede traballante non meritava il
riperpetuarsi di tanta generosità divina.
Arriva sempre troppo presto il momento di ripiegare i sogni
nei cassetti.
La generosità del tempo ancora
sospeso si assottigliava.
La casa era solitaria già da
molto, ormai. Una volta, ogni stanza aveva una vita, una funzione e un destino
che scaturivano, ordinatamente, dai gesti, dagli oggetti, dagli sguardi
sedimentati in anni.
Aspettava. Solo quando le
luci cominciavano a sbiadire, chiudeva la finestra trascinandosi pesantemente
sulle pantofole, pelo di gatto su feltro nero. Non sarebbe venuta nemmeno
quella sera.
Un ultimo sguardo dalla finestra: il silenzio dell’acciottolato si inerpicava sulla salita. No, non sarebbe più venuta. Era la quinta sera di seguito ormai.
Cisca, la gattara, compariva improvvisamente sulla porta come spuntando dal terreno. Le raccontava di averla vista girare per il paese con la bambina, più spesso da sola. E la gente parlava. Parlava di quella donna che ingoiava terra e singhiozzi sui bordi delle strade, ignara degli sguardi. Ah, la gramigna, bisognava estirparla all’origine, la gramigna..
Un ultimo sguardo dalla finestra: il silenzio dell’acciottolato si inerpicava sulla salita. No, non sarebbe più venuta. Era la quinta sera di seguito ormai.
Cisca, la gattara, compariva improvvisamente sulla porta come spuntando dal terreno. Le raccontava di averla vista girare per il paese con la bambina, più spesso da sola. E la gente parlava. Parlava di quella donna che ingoiava terra e singhiozzi sui bordi delle strade, ignara degli sguardi. Ah, la gramigna, bisognava estirparla all’origine, la gramigna..
"Che posso farci ormai, le forze
mi hanno abbandonata, che posso farci, avrei dovuto raddrizzarla da piccola
quella figlia snaturata!” Ma la voce tradiva.
Cisca le gettava uno sguardo traverso, allungava la mano verso il bicchierino di vermouth versato prontamente per
chiuderle la bocca, ricompensa per quella visita quotidiana e per le informazioni
non richieste.
"Anche nelle migliori famiglie
crescono rami storti. Pare che a casa ci stia ben poco ormai, quel pover'uomo
del marito, deve averne di pazienza per non cacciarla!"
Sputata la sentenza, la gattara usciva
piegata dentro le vesti nere, trascinando l’alluce valgo per la discesa,
diretta verso un’altra casa dove portare qualche scontata novità.
Zara la osservava dalla finestra mentre
spariva dietro l’angolo. Il silenzio che restava era ormai contaminato.
No, non sarebbe più venuta.
No, non sarebbe più venuta.
Nell’ insolenza della sua casa
vuota, le immagini e le voci si
rincorrevano attorcigliandosi in matasse che non riusciva a dipanare.
Fotogrammi comparivano e sbiadivano
prima che riuscisse a interrogarli.
Quando fu stanca di districare
gli scherzi di quei fili irriverenti che non si lasciavano addomesticare e la confondevano, li abbandonò chiudendo tutte le porte. Li lasciò a inseguirsi ed arruffarsi, sperando di
essersene liberata per sempre ….
Chiuse la porta e chiuse la bocca, Zara.
Chiuse la porta e chiuse la bocca, Zara.
Non ci volle tanto. L’odore
pungente della vecchiaia si insinuò in
fretta nelle vesti e nel candore della pelle senile. Cartacce e stracci si
ammucchiarono inesorabili sotto i vecchi mobili di truciolato del soggiorno buono e, nei piatti di ferro
smalto, fu una primavera perenne di
muffe variegate .
Ora, nel biancore della
stanza, lo spazio e il tempo si dilavano sciogliendo ogni confine.
Per paura di perdere quel poco
che le restava, Zara risucchiò ogni
anelito del suo corpo. Ogni respiro, ogni cellula, ogni possibile articolazione
di suono furono concentrati all’interno in un unico puntino nero. Anche il
vuoto della casa, l’eco delle stanze silenziose, fu addensato in quell’unico punto,
che la proteggeva contenendola interamente .
Lì se ne stava rannicchiata, arrivando presto
a confondersi con le pareti scure.
Come un legno abbattuto, ancora conteneva il grido della pioggia, l’eco del formicolio degli insetti, l’impazienza del muschio. Ma la smania della primavera era scomparsa, sbiaditi e addomesticati i furori di quel tempo ancora giovane.
Come un legno abbattuto, ancora conteneva il grido della pioggia, l’eco del formicolio degli insetti, l’impazienza del muschio. Ma la smania della primavera era scomparsa, sbiaditi e addomesticati i furori di quel tempo ancora giovane.
Anche il seguire un filo di poca
consistenza bastava per condurla oltre
una porta .
Si schiudeva, allora, un’altra
età della vita. Una bambina vestita di carta si svelava per un attimo, cadendo
e accartocciandosi sulle ginocchia.
Annodava il filo all’odore infantile che ne
restava, stringendolo con furia tra il pollice e l’indice .
Era sufficiente. Per un attimo, a
volte più a lungo, se si era fortunati.
Accadeva, talvolta, che quel
filo avesse la proprietà di impigliarsi in qualcosa di vagamente conosciuto. Allora camminava sul crinale della collina, frustata dal vento, con il volto
arrossato dal freddo e dalla fatica, abbracciando la fascina di legni anneriti.
La bambina camminava dietro, mani graffiate e nere dai rovi bruciacchiati. Ma sorrideva,
la bambina, portando con sé quel ciuffo di lana che il filo spinato aveva rubato ad una pecora
imprudente.
E quanto camminava Zara , nel suo
letto.
Passi veloci nel corridoio. Il
tonfo di una porta. Una presenza riempì timidamente lo spazio vicino al letto.
Zara si impigliò in un noto odore
infantile. Aprì appena gli occhi.
La donna arrivò trafelata. Ancora l’ odore di cibo
fritto nei capelli, un tacco sberciato, lo strascichio di voci infantili che la
rincorrevano.
Si avvicinò e si sedette, la
donna, occhio distratto, per poco, dalla luce impietosa della finestra aperta. Il respiro ancora affannato, sincronizzato a fatica su quello appena
percettibile dell’altra. Lo sguardo pudico di chi ha paura di guardare l’ignoto ma il dovere di farlo.
La deriva portava l’orizzonte
ancora più lontano. Con il ritmo grigio della corrente, uniforme e inesorabile, gli ultimi ricami si sfacevano in
centinaia di fili consumati.
Ma l’orizzonte non era più il punto d’arrivo.
Ogni immagine si disfaceva e si
scioglieva, perdendosi in mille rivoli. Le dita ancora più strette sul filo.
Era accaduto poco prima.
Mamma. Mai sono stata madre.
Appena fino ad oggi. Sorrise. Appena da oggi .
Porta i miei occhi alla fontana
dei salici, quando sarà il momento.
Oh figlia , figlia, non mi
lasciare ora, non lasciare che attraversi da sola la porta di sabbia
Non mi hai dato gambe per camminare,
come posso essere, ora, madre di mia madre ?
Non dimenticare di prendere un po’
di lacrime con te – figlia- possono tornare utili .
Le mie lacrime avevano colori di
cera e ali mozzate di gallina, le ho lasciate sotto il cuscino, e a
cercarle,ora, solo l’alone della loro scomparsa.
Figlia, non andartene adesso, non
privarmi del tuo passo traballante, non mi lasciare dimenticata, non lasciare
che io, di me dimentichi , ancora curva sulla china della collina.
Madre, non mi lasciare, non
voglio diventare grande, sono ancora piccola, non mi vedi ? Sono ancora la
bambina che correva dentro il tuo letto, non lasciarmi a dormire sul tappeto ai
tuoi piedi, fammi entrare, mamma. Portami ancora sotto il ciliegio, madre, riempimi la bocca
di frutti rossi, quelli che mi hai dato
sono ormai marci sotto i denti da latte.
“ Tu… stai pensando qualcosa “ – La voce, finalmente - sussurrò Zara
abbandonando le mani tra le pieghe del lenzuolo.
Nella vaghezza liquida dello sguardo, la
donna intercettò un lampo breve, il presagio indistinto delle cose inafferrabili. Approfittare di quella brevità .
“ Anche tu stai pensando
qualcosa, mamma “ Rispose con urgenza.
Ronzio di api fuori dalla
finestra .
“Si. Sto pensando di cambiare vita. “ Tornando a inseguire i suoi crocicchi, i
filari di vite, l’orizzonte che si perdeva nell’indefinitezza dell’azzurro.
Accadde poco dopo.
Alcune civiltà usano il termine
soffio per indicare la vita. C’è un momento in cui ogni soffio, liberandosi
della costrizione della materia, si ricongiunge al più vasto respiro dell’aria.
Noi la chiamiamo morte.
L’eredità di Zara, fu delle api
.
Complimenti. Continua a scrivere.
RispondiEliminaTroppa bontà! :)
RispondiEliminaDavvero brava. Bellissimo racconto. Scritto molto bene.
RispondiEliminaSai leggere nei cuori.
Più tardi lo rileggerò.
Ciao
Passavo, non a caso. Non a caso ti ho ritrovata. Bellezza mia!
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